poesie

Dina

Dicono che anche la neve ora sia chimica e nociva, ci sono complotti per tutto. Dina ad esempio abita al settimo piano e davanti al suo palazzo c’è un platano alto nove piani, in cui albergano gli scoiattoli grigi.
–Sono un complotto anche loro, è strano avere paura degli scoiattoli grigi vero?- Dice guardando il platano spoglio fuori dalla finestra. Ed io penso che Dina sia un complotto di forma, di soluzioni insolubili, una di quelle persone che ami o che passano inosservate, per il loro sapore, anche il carattere ha un sapore. Quando andavo all’asilo non sopportavo il sapore dell’ovomaltina, mi sembrava una polvere fatta con i gusci delle uova marce polverizzate. Mi piaceva il nesquik, ne mangiavo a cucchiaiate, ora mi fanno schifo tutte e due. Invece Dina è salutista, e quindi mi prepara il succo di limone biologico con il bicarbonato, dice che alcalinizza il corpo, e che quasi tutto quello che mangiamo lo acidifica. Dina è una ragazza alcalina. Io e lei non ci siamo ancora mischiati, non a livello fisico, la dolcezza si mischia bene quasi in tutti i corpi, ma è così commerciale, acidifica se non la si dosa bene, il carattere di Dina è fatto di curcuma, di cardamomo, zafferano. Dovrei essere un riso basmati per fondermi con lei, e quindi sto facendo questo lavoro alchemico :ripulisco ogni mia cellula dal nesquik, per farla diventare un chicco bianco. A volte mi metto sotto la doccia, immagino l’acqua entrare nella mia pelle, come se avesse dei pori aperti ,come un sacco di juta, in fondo si dice :” ajutati che il ciel ti ajuta” . Ci sono dei pensieri che non sono nemmeno miei, e si aggrappano ai miei pensieri come dei parassiti, così indirizzo il miscelatore direttamente su quei pensieri, ed escono come flussi neri, sono pieno di complotti. “Il riso fa bene” penso, mentre immagino Il nome di dina trasformarsi in DNA, una sequenza di informazioni che prende forma nel tempo e nello spazio, e mentre Dina mi guarda con i suoi occhi azzurri, raccontandomi delle sue precoci trasgressioni, mi sembra che lei non veda tutto lo sporco che c’è in me, che non lo prenda nemmeno in considerazione, sembra che davanti ai suoi occhi non esista, mi assaggerà nella sua bocca, penso, mentre mi racconta con naturalezza di quanto l’amore sia vicino alla violenza, all’impetuosa voglia di mischiarsi e lasciarsi i segni, per non farsi possedere da nessuna altra cosa, tranne che da se stessi.

L’odore del fico

Adele abitava all’ultimo piano di un “edifico” costruito in mezzo a un campo, sperso di fiori gialli fino all’orizzonte. Per andarla a trovare bisognava percorrere un filare di ortensie blu, e poi incamminarsi per la piccola stradina sterrata, fino alla palazzina. “Ecomostro” dicevano i cartelli stradali limitrofi, però i suoi abitanti erano diventati come isolani, quel palazzo di cinque piani era un atollo e con il tempo sul tetto era cresciuto un enorme ficus carica, che proteggeva l’intero palazzo dalle intemperie. Le sue radici strisciavano fino a terra, i balconi e le finestre adombrate da quelle enormi radici nascondevano le vite dei suoi abitanti, e della casa ne erano le colonne portanti. L’erba portata dal vento era attecchita tra i mattoni di terracotta, con piante di pistacchio, petunie e portulache. L’entrata in stile Liberty del palazzo era circondata dalla menta, le scale di legno di rovere, al suo interno erano state dipinte di azzurro, sulle pareti graffiti, e scritte come: ”L’ecomostro è diventato un ecosistema”o “Giù le mani dall’ecomostro”.
-Andrea Sali! – Disse Adele affacciata in cima a quelle rampe di scale lasciando cadere i capelli neri , come una Giulietta Shakespeariana , quel giorno stava ancora in pigiama. Sotto il mio peso quegli scalini di assi, scricchiolavano in modo confortevole, e dalle finestre di ogni piano entravano rami di quel fico creando piccole sculture primitive. Al centro della tromba delle scale scendeva una sola radice, come un palo a piombo, penetrando nella pavimentazione. Antonio, scendeva direttamente da quel palo, era un pompiere in pensione che si dilettava nell’arte di suonare le maracas.
Arrivai da Adele con un po’ di fiatone.
-Ti ho portato questo- Era un melone maturo. Per fare festa andammo dentro alla sua stanza preferita, quella ricavata all’interno della grossa corteccia del fico, un lettino di fieno simile a un nido, e candele posizionate sui nodi naturali dei rami. Appoggiammo i piedi alla corteccia interna, tra il cinguettio dei passeri o cosa erano, ad un soffio da noi. Il profumo del fico, in estate è estatico, ma sembrava che tra il fico e Adele ci fosse un legame intimo, più accarezzavo Adele e più quel fico profumava, come se tutto il palazzo respirasse assieme a noi. Non avvertivo i boscaioli,le ruspe che sarebbero arrivate ad abbattere il nostro legame di pelle e foglie, continuavo a mangiare la fetta di melone che Adele teneva tra i denti, fino al morso più profondo, un fruscio di braccia e rami aperti, e venti e mani sulla schiena, la mia radice penetrava l’intero edifico, il diorama di una dea. Non percepivo il rudere che sarebbe stato, il sogno sfrattato, l’appartamento senza odore in cui avrebbero rinchiuso Adele ed il nostro amore.