Tra il rompere il ghiaccio e il rompere i coglioni c’è un confine sottile. A volte esco con un piccone per facilitarmi le cose, siamo cubetti di ghiaccio, piccoli monoliti che si trascinano e bivaccano o trivaccano seduti per passare il tempo. Quando finalmente rompi il ghiaccio si finisce a parlare di traumi, escono come funghi i traumi. A un mio amico gli crescono dei frutti strani sul corpo a causa dei trami, sono cresciuti dentro di lui come una pianta, e quando ci vediamo per un aperitivo si stacca queste specie di noccioline psicosomatiche che gli crescono sulle braccia e me le offre, hanno il sapore tra il pollo ai ferri e la banana fritta, per amicizia butto giù con l’acqua come pastiglie di augmentin, e lui assorbe i miei e così rinsaldiamo l’empatia. Almeno lui butta fuori, altri tengono dentro. Se dovessimo pesarci a traumi, peseremmo come montagne. E tutto uno scambiarsi di sindromi traumatiche mai risolte del tutto, più che rompere il ghiaccio bisognerebbe rompere il trauma, non è l’amore che ci unisce ma un trauma antico che ci rende tutti simili, fratelli siamesi staccati solo apparentemente dal corpo-trauma. Io ho paura di avere rapporti intimi, mi sono stufato di avere a che fare con tribù di traumi, se non escono subito, escono dopo, ma escono, le madri, i padri, i fratelli, gli amici, gli ex, la scuola, le malattie, i traumi delle vite passate, non se ne esce più.Però se al trauma togli la u, rimane la trama di un gioco infinito, spaventoso e bellissimo.
Month: Maggio 2016
ho bisogno di stelle quanto di carezze
Il cielo bianco latte
dietro la finestra e le tende
da qui l’orizzonte è il profilo di una casa
e ho bisogno di stelle quanto di carezze
potremmo vivere all’ultimo piano di qualunque posto
e sentirti addosso
come una cosa accaduta su me
mentre guardo le stelle
e ci combaciamo nel calore
potrei osservare il freddo pulsare
dell’orsa polare ad Agosto e sudare
tenere per ore le mani sulla tua schiena
fino a quando l’alba risveglia un particolare
sulla tua pelle che non avevo mai visto
ma ho la pigrizia di chi ha aspettato
non ho fiato ma vorrei arrampicarmi
sulle case come l’uomo ragno
ci vuole forza per l’infinito.
Timbrami
Timbrami come un biglietto giornaliero
timbrami con uno sguardo che non guarda
come fa la notte che indossi
e ti curva con eleganza
le galassie in te si restringono nei minimi dettagli
mi abbagli di ricordi e presenza
nello stesso istante
mi accechi di moti e pianeti
e solo l’educazione ci separa il caos
dal desiderio di perdermi
nella tua emanazione stellare
sono un asteroide in collisione
ai tuoi occhi
timbrami ogni giorno,
abbonami alle tue parole
per colmare la distanza.
Nuvole cadenti
Mentre guardo le nuvole con Gaia, lei mi dice con tenerezza –Guarda c’è una nuvola che assomiglia a un cuore rovesciato!- Sembrano anche due natiche, ma non lo dico. E’ una nuvola cadente, non ci accorgiamo subito che è cadente, perché sono incantato da lei, mentre parla con i suoi denti sporgenti, da roditore simpatico, e allo stesso tempo dai suoi occhi scuri e vivaci come rondini, e penso ai segni che i suoi morsi, lascerebbero sul mio braccio. Faccio collezione di fantasie di morsi d’amore. Ho una morsi-pinacoteca femminile in fondo al mio cervello a destra. Quella nuvola dopo un po’, è caduta alle nostre spalle, sbuffando pezzettini di nuvola fredda sul nostro collo. Ci giriamo e Gaia fa un’espressione ibrida di felicità e paura, sgrana gli occhi dallo stupore e i suoi denti scompaiono sotto le labbra. Ci alziamo e andiamo verso quella nuvola coricata sul prato.
-Forse è da rianimare.- Dico. Lei corre sopra di essa a braccia aperte, e si mette a saltellare felice al centro di quel cuore bianco. Giochiamo a buttarci pezzi di nuvola addosso come palle di neve leggerissime. Poi lei morsica la palla di nuvola che ha in mano.
-Assaggiala non sa di nulla!- La morsico al lato del suo morso. A un tratto la nuvola si rianima e risale in cielo come un cuore a pezzi. Anche la palla di nuvola con i nostri due morsichi sale verso l’alto. Prendo per mano Gaia. Lei osserva la nuvola risalire ed io guardo la sua bocca aperta dallo stupore. Forse è quel morsico di nuvola che abbiamo inghiottito a farci baciare, e la sua lingua è un morsico lieve allo stomaco che libera profumi che avevo dimenticato.
Nel paese di Imbuttana
A Imbuttana le persone hanno la testa a forma d’imbuto, senza occhi, bocca, naso e orecchi, solo un imbuto con la parte stretta a formare il collo e l’imboccatura superiore di diverso diametro e colore. I bambini hanno l’imbuto proporzionalmente più grande del resto del corpo, quindi le loro teste sono sempre colme d’acqua di pioggia e rimane limpida per mesi. Gli Imbuttani, ragionano di pura emozione, veicolata dall’acqua piovana che circola nei loro corpi in modo capillare, consentendogli di vedere e sentire con tutto il corpo. Dormono e svolgono ogni loro funzione in piedi, cadere e svuotarsi improvvisamente di tutta l’acqua contenuta nella testa imbutata, li farebbe morire. Per questo hanno corpi tozzi, piedi grandi, e braccia lunghe. Per non perdere il baricentro. La loro città non ha case, in effetti non è nemmeno una città, ma una distesa pianeggiante senza fine, in cui tutto il popolo procede a piccoli passi verso le nuvole e la pioggia. Procedono camminando lenti, con file di carovane trainate da cavalli ai loro fianchi, che servono per trasportare imbuti pieni di acqua di riserva. Nei periodi di carestia, rabboccano l’acqua dell’imbuto con quella delle botti. Avere una testa con una grande svasatura è sinonimo di saggezza. Per questo a Imbuttana i bambini sono considerati saggi. Poi con lo sviluppo, la testa assume svasature e capienze d’acqua diverse. Ad esempio, nelle donne una svasatura alta è stretta, è sinonimo di bellezza, mentre negli uomini le donne trovano molto sexy il gambo dell’imbuto più largo, un collo capiente, a dispetto del diametro della coppa. Il gesto più intimo, tra gli innamorati è travasare parte del contenuto del proprio imbuto in quello dell’amato, usando le mani come mestoli. A piccoli sorsi, certo, non tutt’assieme, non all’inizio. All’inizio ci si bacia con poche gocce. Fare l’amore per gli Imbuttiani è un atto di volontà che dura per tutta la vita. Ed è necessario per la sopravvivenza di tutti, dall’adolescenza in poi. Un processo continuo e costante, un travaso incessante di coscienza. Nel loro nomadismo perenne i nuovi nati sono i primi della fila, a loro è affidata la sopravvivenza dell’intero popolo, al loro intuito per i temporali. Dietro di loro file d’innamorati a vari livelli, lunghe decine di chilometri. Nelle ultime file, quelli che non hanno trovato un amore, avanzano camminando con gli innamorati più anziani. Sovente i single smettono di seguire il loro popolo, si lasciano cadere, sacrificandosi per il bene di tutti. La loro testa imbuto viene staccato dal corpo e messo nelle carovane e usato come scorta. Le ultime file di questo popolo innamorato, sono molto disomogenee, in vecchiaia l’uno è talmente colmo dell’altro, da diventare l’altro, e finiscono la loro esistenza stabilizzandosi definitivamente in un punto, smettono di inseguire la pioggia, credendo di essere arrivati, si perdono l’uno nell’altro, il loro imbuto finirà a fare da scorta.
Di ciò che è svanito
Di ciò che è svanito
sovente continuano a intimidire
cose viste con la coda dell’occhio
le direzioni che si potevano prendere
rimangono alberi mossi dal vento
e cuciture di odori, che tutte assieme
non ridanno una sola ora di quegli scorci
ancora più umani se svaniti
il non svegliare per non chiedere scusa
inebetiti dal sole, certi sorrisi svaniti nella luce
volti di profilo, i rimandi con le emozioni
che continuano a palleggiare
come vi fosse ancora tempo
sono timido con i fantasmi
sarebbe bastata una parola diversa
a cambiare un destino?
ingigantisci
Ingigantisci l’amore
le persone, l’ansia
il bene il male
gli amici,
ingigantisci da una vita
le parole il silenzio
il sesso le paure
le aspettative
i sogni le promesse
e poi ti ritrovi solo
……..
I palloni gonfiati
riempiono di parole
enfatizzano la morte
per fare colpo,
non stanno mai zitti
sono puttane di parole
la loro arte è ammaliare
e tocca morire dentro
per recuperare
il loro rubare,
vorrei essere falso e stare bene
sorridono se trattate da puttane
il mondo è fatto per i puttanieri.
nel tuo gesto di esserci
Ci cerchiamo
per fare germinare la felicità
in quei luoghi che ora sembrano tristi
si è più felici da soli
quando si è in due
tra di noi c’è qualcosa più intenso di ogni orgasmo
cose che rimangono
anche quando si spegne la luce
un profumo che non svanisce
il piacere dei sacri tuoi silenzi
nel tuo gesto di esserci
in questo stesso mio tempo
il resto è da buttare.
Hi-tech
Era da così tanto tempo che non uscivo che sono cambiati anche i baristi. Ora danno consigli privati sul sesso, in generale sulla vita, sono coach motivazionali scelgono la musica giusta per metterti in risonanza con il rum, per un coinvolgimento multisensoriale. Usano strumenti hi-tech mettono più ghiaccio in bicchieri diversi secondo il drink e i clienti diventano amici, si prendono bene salutano il barista con le nocche in un certo modo. Allora mi sono attrezzato. Ho appiccato il fuoco ai vecchi mobili, al mio letto e a qualche miliardo di acari. E’ venuto il draghetto Grisù in persona a spegnere l’incendio. Pulizie di primavera. E poi ho acquistato luci per la cromoterapia che simulano il tramonto e cinquanta tipi di aurore. Al posto dei mobili ho messo una doccia emozionale, nella quale puoi fare il bagno turco, ottomano, fenicio, o volendo con yougurt greco, e anche brevi viaggi nel tempo. Su una parete c’è una cascata di acqua ionizzata. Ho sostituito il letto con una vasca piena di fieno. Non è dell’Alto Adige, l’ho recuperato ai giardini di Via Artom, ma credo che per reumatismi vada bene lo stesso. Ho sempre desiderato avere un fienile in casa. Ora ho comprato su e.bay una mangiatoia di pietra, per mangiare in posizioni più naturali, a quattro zampe come i lupi, e a fare a meno di forchette e piatti. Faccio di tutto per essere al passo con i contrattempi. Anticipandoli. Comunque al barista ho chiesto una bottiglietta d’acqua gasata.
l’impronta del sorriso
In certe note di basso
c’è un accampamento di tempo
il sangue calore sulla punta delle dita
chiede di non essere più carne
l’accostamento dei colori
rende fiori le tue scarpe
ti consumerei il collo
con un leccare di seta
non ricordo il nome di quei fiori bianchi
ma ricordo l’odore dei banchi di scuola
l’odore delle pietre e dei fiumi
vorrei nulla ci attaccasse così ferocemente
da cambiare l’impronta del sorriso
la felicità dei passeri che volano
via con pezzi di pane
siamo scampati a pericoli
abbastanza da riaverci nei nostri anni