Celeste era un amico di famiglia, aveva la pelle così appiccicosa che in estate le mosche vi si attaccavano sopra le zone di pelle scoperte dagli abiti, spesso sulle braccia e sul cranio pelato. Era un amico di mio padre, ricordo le loro giocate a scala quaranta nelle serate in cui la luce lunare a un certo punto diventava più forte della luce artificiale. Io guardavo e mangiavo popcorn, mi divertiva vedere gli insetti della campagna attratti dalla testa luccicante di Celeste. A volte vi rimanevano appiccicate grosse falene, allora le afferravo delicatamente dal corpicino per non rovinare le ali e le ributtavo alla luna. Pensavo che la luna fosse la madre delle falene. A volte quando giocavano a carte e mi annoiavo, prendevo un cestino di palline da ping pong, mi sedevo sulla poltrona in finta pelle a torso nudo e pantaloncini, con la luna alle mie spalle, e tiravo le palline addosso a Celeste. La testa valeva cento punti, le spalle cinque, le braccia uno. Mi veniva da ridere perché a volte riuscivo ad appiccicargli addosso anche venti palline, e sembrava una rana con addosso le uova di luna. Una sera aspettammo Celeste fino a tardi, non vedendolo arrivare, mio padre uscì verso la strada.
-Vieni a vedere Andrea! Sulla testa di Celeste si è attaccata la luna!-
Era una luna grande come tutto il campo, Celeste era disteso sul prato e la luna sembrava un cappello gigantesco. Mio padre tirava Celeste dalle mani ed io spingevo la luna verso il cielo. Era farinosa e calda, riuscimmo a staccarla dalla testa appiccicosa di Celeste, e lei rimase sospesa nel campo. Corsi in casa, andai a prendere le mie palline da ping pong, riuscii a tirarle sulla luna, mentre lentamente si alzava per andare a occupare il suo posto. -Ho fatto un milione di punti!- Urlai. E mentre la luna saliva, si formò una nube di falene attorno alla loro madre. E le mie venti palline, se strizzo forte gli occhi, mi sembra ancora di vederle.