Eravamo entrati nell’orto, scalzi, il giorno prima aveva piovuto. Ci piaceva sentire la terra argillosa deformarsi sotto i nostri passi, entrare tra le dita per poi staccarsi come pezzettini di pongo. Erica, aveva un vestitino in tulle, quello con cui aveva danzato la sera prima a una festa di paese. Si allargava sulle ginocchia, come un fiore di zucchina. Io avevo una camicia di cotone e dei pantaloni di lino, stretti alla vita da una cordicella. Era entrata prima lei perché stavamo giocando a inseguirci, aveva aperto la porta di legno prima che la afferrassi per il braccio, se avessi voluto, l’avrei afferrata, mi ero fermato a osservare la porticina spalancarsi verso un campo giallo di colza in fiore. Come il sole che impietoso le aveva fatto scintillare la scollatura sulla schiena, e i capelli, creando un vapore di nettare che avevo respirato tutto in un fiato.
-Non mi prendi!- Aveva detto sorridendo, in fondo alla fila di pomodori, le mie mani su due tutori di legno, su cui avviluppavano campanule bianche e fagioli con baccelli di un verde limpido e fresco. Aveva cominciato a tirarmi dei pomodori caduti a terra, uno si era schiantato sullo stomaco, macchiandomi di polpa rossa. E poi ero ripartito all’inseguimento, il suo vestito in tulle nella corsa si era impigliato in una pianta di albicocco.
-Non vale ti ho colpito, sanguini, ora sei tu l’ostaggio.- Disse liberando un filo di tulle dalla corteccia.
-Chiedo alla vostra signoria la protezione del consolato dei giardini.-
-A si? Per quello che ha fatto, lei merita le prigioni delle soffitte. Mi segua, per adempiere la giustizia. Sarà il giudice dell’ombra a giudicarla. – La seguii come un condannato alla bellezza, entrammo nel portone che portava nel granaio. L’odore dei tini, e del vino che colorava la terra con sangue purpureo, il suo sottile braccio che tirava il mio dito, segnava la distanza tra me e lei, su ogni scalino di legno. Fino alla grande stanza delle scope di saggina, e del grano turco.
-Ora si spogli davanti alla corte!- Disse seguendo un copione che avevamo già fatto, la luce filtrava appena, in controluce il suo profilo mi chiudeva la gola. Mi spogliai e lasciai cadere a terra i miei indumenti.
-Ecco ora sono spoglio! La legge è uguale per tutti!-
– E allora mi spogli lei, ma senza sfiorarmi la pelle, le mie mani sono troppo aristocratiche perché entrino a contatto con un villano, plebeo, come lei!-
Le sbottonai il tulle dai gancetti, lo feci scorrere in basso, lei alzò un piede e poi un altro, come per imitare la marcia di un soldatino, ma con una fucilazione di grazia che sarebbe rimasta a ricomporsi nella mia mente per tutta una vita. Posai il suo tulle sopra i miei vestiti. E camminammo dentro il mucchio di grano, affondammo fino alle ginocchia, ci lasciammo cullare da ogni chicco, affondando e riemergendo, tra la polvere di farina e sudore. Intanto il suo tulle, prese una piega strana, si alzò per librarsi nell’aria, e così fecero i miei pantaloni di lino e camicia di cotone, e si arrotolarono e poi rimasero sospesi, supini nell’aria, incominciarono a inseguirsi, per placarsi sui vetri, ed infilarsi l’uno nell’altra, e poi ancora appoggiati al soffitto, fino a quando una corrente d’aria li portò con sé, nel paese in cui i vestiti fanno l’amore per l’eternità ed esprimono i loro orgasmi nella tessitura, e nella trama, nel loro amare i corpi che indossano. Erica ed io non ci accorgemmo di tutto questo, semplicemente i vestiti erano scomparsi. Lei tutta bianca di farina, con una isoletta più scura, i suoi occhi accesi nella sera, siamo stati fermi così vicini, da farci vestire dalla notte con un solo vestito