Rose

In certe serate così mi sento un pochino solo, mi prende il solito odio-rassegnazione nello stomaco, lo devo fermare, devo scrivere più che leggere, devo distruggere qualcosa a parole o costruirlo più forte, vorrei divertirmi. Scrivere poesie è come cagare dalla bocca, nella solitudine, una urgenza a volte non voluta, ho delle tribù nello stomaco, non i fermenti lattici. Questa premessa è per parlare delle rose, le bellissime rose sono spietate, le rose umane confondono , prendono in prestito le parole dei poeti, le condividono, una tenerezza infinita scorre senza profumo ; “O tenerezza umana dove sei? Forse solo nei libri?” Scriveva Izet Sarajlic’, ma è la poesia stessa che non trova mai terra, muore nei sabato sera davanti a calici di birre trappista, alle musichette , al tam tam, non attecchisce davvero, scorre come diarrea nei social, nelle applicazioni, nelle serate dedicate alla poesia. Non attecchisce davvero. Le rose senza profumo sono la vera pornografia, il vero insulto alla vita. Ricordo la prima volta che trovai un giornalino porno, lo aveva nascosto mio padre, ed io ero un bambino troppo curioso. Quei cazzi che entravano nei culi e nelle bocche degli adulti, mi avevano creato un piccolo stupore, pensavo che gli adulti si cagassero in bocca, pensavo che i cazzi turgidi fossero stronzi che uscivano dai culi ed entravano nelle bocche, non sapevo ancora leggere, avevo cinque anni ed amavo i fiori, al mio compleanno la mia vicina mi regalò delle rose gialle, provai una felicità interna luminosa, portavo i capelli lunghi, giocavo con le bambole, la cosa che più amavo erano i fiori e le piante, scoprii il sesso a nove anni, con il suo odore, una mia vicina poco più grande di me si faceva annusare sotto il letto , l’odore del sesso era diverso da tutto, le pagine di quelle riviste pornografiche trovarono un senso, il sesso è una voragine primitiva non ha un odore delicato , tutte le tessere tornarono al loro posto, imparai ad essere un cane bambino, ad amare gli odori più strani, come l’odore dell’urina nei sottopassaggi che portavano al mare. In campagna pisciavo in fondo al giardino, sopra un barile arrugginito pieno di ferraglia, il cesso d’altronde era un buco da cui uscivano moschini neri, avevo bisogno di segnare il territorio. La campagna era una enorme paese, e le emozioni si manifestavano in certe zone a secondo delle culture, anche la campagna aveva il suo sesso. Il culo era nei fossati, nella terra umida, la figa dei campi cambiava forma a seconda della stagione, in estate era il mais in cui mi addentravo per masturbarmi, ferendomi con le foglie che tagliavano come foglie di carta ruvida, i peli della figa spuntavano dalle pannocchie di mais, biondi freschi, ed il suo latte era nelle pannocchie stesse, le piante di mais erano ragazze, destinate a diventare donne e poi anziane e poi solo desolazione, nell’arco di due mesi, forse la pannocchia è anche un simbolo fallico, io le vedevo come seni con la figa incorporata, il cazzo lo mettevo io. E quello era soltanto l’inizio.

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