Month: marzo 2015

E poi è sempre lei, la poesia che mi aspetta a gambe aperte

E poi è sempre lei, la poesia
che mi aspetta a gambe aperte
o con le carezze o un intruglio di dolore.
Mi redime dalla mia stessa carne,
senza corruzione.
Senza la maleducazione dello scherzo,
del fraintendimento, degli stessi poeti
che mi sputano addosso il loro ego.
Non me ne faccio una sega,
ho già le mie puttane di parole.

Stampante 3d

Paoletta ha comprato una stampante 3d per i sogni. E’ una specie di cuffia per capelli con dei fili che finiscono su una stampante a modellazione per deposizione fusa , posta sul comodino.Siamo costretti a dormire a turno. Durante la fase rem questa stampante s’accende e comincia a stratificare le immagini dei sogni, la matassa di plastica gira come un nastro a bobina uscendo fusa dall’ugello riscaldato , solo che è tutta da tarare e tra un sogno e l’altro ne escono fuori composizioni surreali, l’altra notte a me è uscito un albero con orecchie di coniglio ed una lunga coda con petali, a Paoletta escono città inglobate con persone, case con tetti di gambe o porzioni di viso. Molte volte sono composizioni pollockiane. Alcune di queste composizioni le porta in un posto dove le ingrandiscono in scala, creano oggetti di design, pacchiani, ma piacciono ai ricchi. Quando va bene con una bella dormita tiriamo su un pacco di soldi in una notte sola. Il problema è che il processo deve essere documentato per la certificazione di “oggetto da sogno di origine controllata”; così quando dorme lei sto sveglio io e quando parte la stampante registro tutto con una fotocamera HD, registro i suoi occhi che si muovono e poi la colata di plastica, durante questa fase la bacio senza svegliarla, se m’accorgo che sta uscendo una specie di mostro le sfioro la fronte. E poi rimango in attesa della successiva fase rem tenendomi sveglio pensando ad una alternativa a questo cazzo di lavoro, perché vorrei accarezzarle le cosce, ma non posso interrompere il ritmo circadiano del sonno. Così la respiro e penso. Poi quando si veglia lei facciamo una breve colazione e dormo io. Sedici ore della nostra giornata sono dedicate al sonno-lavoro, facciamo i turni sfalsati, ma per il resto tutto ok, ci rimangono otto ore per sognare davvero, uscire, mangiare, coccolarci. Abbiamo provato a metterci in testa la cuffia quando facciamo l’amore, ma quella maledetta stampante non si fa fottere, si attiva solo con le onde beta o come si chiamano quelle in cui uno sogna e remma.
-Stanotte hai remmato meravigliosamente tesoro…- Le ho detto l’altra notte, mostrandole la graziosa composizione che aveva creato, una specie di coppetta gelato dalla quale uscivano tre falli intrecciati.
-Ma io non ho sognato una cosa del genere…- M’ha risposto stirandosi la schiena e abbracciandomi, per fortuna era sabato, e alla domenica ed il lunedì non lavoriamo, abbiamo recuperato un po’ d’intimità, i sogni sono desideri, ho cercato d’intrecciarmi con lei e poi abbiamo dormito assieme. Ho la certezza che quando dormo e “remmo” io, lei mi accarezza il viso, guardo le registrazioni prima che le cancelli, e questo è uno dei motivi per i quali non ho ancora fatto a pezzi quella maledetta stampante.

concupiamoci nella luce

Un cavallo indomito, con sole due mascelle piene di denti
Con un corpo fatto di prugne gonfie
corre tra le vostre vite questa è la sua gloria;
Una solitudine indomita.
Questo è il pascolo?
Un vento che scalda il gelo di una città
di un caldo gelido.
Non avrò mai più giovinezza,
certa giovinezza,
la speranza ingolfata nell’ansia
mentre vorrei urlare c’è il sole.
E lo splendore continua a splendersi,
e a spendersi con il clamore dell’amore
la grande dissonanza, che ti pare d’esser nota sullo spartito
quando sei suonato, capito nella tua interiore lontananza
e fai finta di non essere mai partito da un punto.
Fossimo anche solo abbracciati
sopra a tutto quell’amore caduto
montagne di amore scaduto
che non può redimersi solo accettare,
a quel fondo mai si avranno abbastanza parole.
Ma se tu sai, calma i miei vortici
I miei nervi rammolliti come meduse.
Cogli le mie mani come il gesto dei fiori
In mio corpo per quello che è,
nella mia paura di spostarmi, nella mia prigionia.
Mi toglierai la parola? Allontanerai ancora una volta la tua sete?
Ci sono già le fragole, concupiamoci nella luce.

fammi tanto solletico dove vuoi tu

Liberami dagli incendi degli squilibrati equilibrati , dalle loro antipatie,
dalla loro superbia, dal loro fighettare
dal loro nientare
dalle loro rime patetiche
dalle rabbie epatiche
dai finti calmi,
dai socievoli ad oltranza
dagli scrittori con la foto dei loro libri nei profili
liberami dalla musica dei miei vicini
liberami dalla merda, dalla merda infinita
fammi tanto solletico dove vuoi tu.

la Grande campana

La gigantesca campana alta dieci metri in mezzo al campo dei Notu è sempre stata un mistero, i vecchi dicevano che era lì dal diluvio universale, il tempo l’aveva corrosa ; vi era una crepa longitudinale, abbastanza grande per fare entrare i nostri corpi adolescenti. La sua superficie fatta di ossidazioni di rame e altri metalli, creava paesaggi turchesi e bruni, un colore di sentimenti contrastanti, come quello delle statue delle fontane, di festa e solitudine assieme. A giugno vista in mezzo al grano, era il colore e la fotografia delle vacanze, ma dava il meglio di se in autunno, quando si ergeva sui campi spogli, superstite dei grandi segreti, delle cose più grandi di noi. Alcuni anziani del luogo provavano una sorta di devozione, vi affidavano preghiere, pensavano che quella campana fosse caduta direttamente dal cielo, per me e i miei amici era una casa in cui nasconderci. Vi entravamo come topi lasciando le bici sull’erba, dovevamo trattenere il respiro per entrare in quella fessura, che schiacciava il nostro profilo ancora elastico, una fetta di luce entrava dalla crepa, il buio e poi i contorni, dei sacchi di plastica che avevamo sistemato sulla terra umida per sederci, una bottiglia di vino rosso mezza piena, un bastone ed un discreto mucchietto di pietre in caso fosse passata una volpe o un cinghiale. Di solito eravamo un trio, io Annibale e Ester che era la cugina di Annibale. Quel giorno Annibale aveva preso un intero pacchetto di sigarette e dei fiammiferi, ci sedemmo al centro della campana, lo avevamo già fatto, fumare una sigaretta passandocela e vedere chi riusciva a trattenere la boccata di fumo nei polmoni il più possibile. E poi il vino, e poi i baci di Ester, e le carezze, gli abbracci a petto nudo, la luce che ci spiava e illuminava i capezzoli, il movimento di una mano, gambe tra le gambe. Eravamo nudi al centro del mondo, attenti alle voci lontane, ogni tanto sbirciavamo dalla fessura, verso la strada, pronti a rivestirci e scappare. Sognavo spesso quella campana, una volta sognai che era fatta di cioccolata e tutto il paese la mangiò rompendola a grandi pezzi, un’altra la sognai ricoperta di lumache coloratissime. Ma ci fu una notte in cui tutto il paese si svegliò dallo spavento, un enorme boato ed un suono metallico che svegliò tutti. Un fulmine era caduto sulla campana, lasciandola intatta , ma aveva disegnato su di essa una specie di occhio. Quella estate non entrammo più in quella campana, l’anno successivo eravamo già troppo grandi per entrare nella fessura, in quella campana rimase un sogno proibito,quella bottiglia di vino, quelle pietre, le avrebbero trovate altri giovani esploratori, come avevano fatto i nostri padri, da chissà quante generazioni.

La ragazza in gabbia

Da bambino sono andato tante volte al mercato degli uccelli di porta palazzo, mio padre trattava con una cura certosina i canarini tenuti nella veranda, e i canarini esprimevano la loro felicità con il loro canto, i colori vivi del piumaggio, il fatto che si riproducessero. Erano esposti verso l’alba, al sole morbido delle mattine,che a mezzogiorno si nascondeva dietro i palazzi. Chiusi nelle loro gabbie, erano una felicità da custodire,da proteggere dalla calura o dal freddo, da rinforzare con gli ossi di seppia. Una felicità in cattività, fatta non di voli ampi, ma di piccoli saltelli tra le stecche, o sull’altalena, un piccolo nido di batuffoli, un bagno nel contenitore di plastica. Simile alla felicità degli operai, delle loro verande,delle 127,delle piante che crescono nei vasi. Prigioni romantiche di vimini, fili di ferro curvati. Ho conosciuto una donna di nome Margherita, con una casa piena di gabbie vuote,le collezionava come oggetti decorativi, d’epoca,quelle del 700 erano in legno con intarsi barocchi dorati a mecca, come le cornici dei quadri antichi. Dei piccoli teatrini ovali,o a forma di pulpiti, di casette, oppure in ferro laccato di bianco. –Le ho prese nei mercatini delle pulci in Francia,o a Londra, non si trovano più…- Mi aveva detto in uno di quei pomeriggi nei quali mi autoinvitavo a casa sua. In alcune gabbiette aveva messo degli uccelli di feltro fatti da lei, nella stanza da letto aveva appeso con dei fili un volo di uccellini fatti di cartapesta. La signora Margherita aveva sui settant’anni, ogni tanto mi accennava qualcosa di più sul suo lavoro. Aveva lavorato come ragazza in gabbia in diversi locali parigini, a volte faceva la ragazza in gabbia per feste private, di ricchi. Conservava alcune foto di quel periodo. Dopo che mi aveva servito la merenda come una geisha, tirava fuori foto in bianco e nero dalla grande gabbia dei ricordi. Ne prendeva due o tre e poi le commentava, sedendosi accanto a me. Una volta ne prese una che non voleva farmi vedere,era scivolata in mezzo alle altre, era nuda in punta di piedi dentro alla gabbia a forma di cupola orientale, non sembrava nemmeno lei, aveva i capelli neri che le sfioravano i seni e la pelle bianca, la nascose subito chiedendomi scusa. Eravamo tutte e due imbarazzati, sapevo che avrebbe voluto dirmi di più.
-Quando ero dentro la gabbia, a volte mi dondolavo sulla mia altalena di velluto, mi sentivo protetta dagli sguardi del pubblico, un quartetto di violini accompagnava il mio canto, non cantavo in francese, mi inventavo parole, oppure fischiettavo – Ogni volta mi raccontava qualcosa di nuovo e fischiettava una melodia, gli abiti di scena se li faceva lei, perché era stata anche sarta, abiti con piccole code di paillettes, o becchi finti di legno dipinto, e ciglia di piume lunghissime. In alcune fotografie aveva reggiseni di piume, o strani copricapi di piume di struzzo. In una foto aveva soltanto una piuma di struzzo che dal centro dei piccoli seni scendeva fino al centro delle gambe,e poi grandi ventagli e bocchini da sigarette in argento , caviglie piumate sopra piedi scalzi, foto fatte di schiena ornata di perle che mi mostrava coprendo con il palmo il suo fondoschiena. Ma sulle sue natiche un pomeriggio scorsi gli occhi delle piume del pavone, e accanto a lei un uomo che le cingeva i fianchi, il suo sorriso da mercante sembrava fuori luogo in quella gabbia,assieme a quella poesia.
-In questa foto sono con Edith Piaf, la chiamavano l’usignolo francese, io ero soltanto “ la fille plume” la ragazza piuma, mi aveva preso in simpatia, dovevamo fare uno spettacolo assieme- La foto sul retro aveva una dedica e una firma. Margherita sembrava prigioniera di quel tempo,le sue piccole mani,i polsi sottili,la magrezza asciutta ed il suo profumo di saponetta alle rose avevano lasciato intatta l’eleganza del suo volto.
-Volavo tra gli uomini, gli uomini hanno bisogno di volare,a volte possono farlo soltanto con gli occhi, con la fantasia,spero che tu diventi un uomo capace di fare volare le donne, spero che tu trovi una donna capace di farti scivolare addosso la vita,come una piuma, per un lungo, lunghissimo tempo.-
Margherita, non mi aveva parlato del suo trasloco. Un giorno quando andai a trovarla, suonai sul suo campanello, un uomo che abitava nello tesso palazzo mi disse che si era trasferita al mare. -Ha fatto la prostituta per tutta la vita,è giusto che vada in pensione anche lei- Rimasi senza parole, non per lo stupore, ma per la malinconia, rimanere leggeri in mezzo agli uomini. Scesi da quel gradino come una rondine che spicca il primo volo.

l’elettromestico che creava felicità

“E se l’esordio della felicità ti è ancora sconosciuto? Se quella che credi di aver provato come tale, fosse solo l’albume che cola da un uovo rotto , e non il tuorlo tutto intero?”Questo era lo strano e disarticolato slogan di quel nuovo prodotto, un elettrodomestico in grado di creare piccoli uragani di felicità. Grande più o meno come un aspirapolvere. Entrai nel negozio e chiesi delucidazioni, il commesso che sorrideva anche dalla testa calva, era entusiasta.-Guardi funziona con il vuoto, lo cattura e tramite una serie di elettrodi brevettati, lo converte in vortici spiraliformi di positroni, una specie di trottola di vento felice, quando la spia è verde direzioni il punto del corpo in cui il micro-uragano deve agire, l’ho provato su di me, mi guardi!- Lo guardai, aveva l’espressione di un segaiolo vergine, dopo il suo primo vero pompino.
-Ok lo compro!- Avevo quella voglia matta di arrivare a casa e provarlo subito. Lo misi in carica, la ventola incominciò a catturare il vuoto che mi circondava, se mi mettevo vicino, la ventola rantolava più velocemente, ed in meno di un’ora “Tin!” il suono del timer e la luce verde. Presi il manicotto con prolunga, volevo sfornare il mio primo uragano di felicità direttamente sulla testa, pigiai con l’alluce del piede il pulsante di avvio ed uscì roboando quello strano vento nutrito da molle invisibili, urlai dal dolore, quell’uragano del cazzo era un silk epil gigante e quelle lamelle invisibili mi strapparono quasi tutti i capelli. Tornai incazzato dal commesso.-Senta si riprenda questo arnese, e se non vuole che la denunci mi paghi il danno!-Il commesso andò alla cassa tutto felice, dandomi cinquemila euro in contanti.- Non ha letto le istruzioni, ha fatto come me, ma posso garantirgli che questo fa parte del processo di guarigione, riprovi sii tenace, e legga le istruzioni!- Me ne uscii con il mio crea tornadi e con quei soldi feci uno shopping sconsiderato, che mi fece ricredere. Lessi le istruzioni, vi era scritto di evitare zone con i peli, le mie uniche parti del corpo prive di peli erano i palmi delle mani e dei piedi. Così rimisi in carica l’aggeggio, mi avvicinai per farlo caricare prima, presi l’ugello tra le mani e schiacciai il pilsante con il manico di un battipanni. Questa volta il piccolo uragano mi creò una specie di solletico , cercai di contenerlo tra me mani, ma scivolò via ed il vento si rapprese lasciando al suo posto una nuvola a forma di ragazza nuda che dormiva sospesa nell’aria.
-Chi sei?- Dissi avvicinandomi per sincerarmi che respirasse. Lei sbadigliò, fece una capriola all’indietro, nuotò nell’aria facendo due vasche da parete a parete, poi si divise in tanti piccoli batuffoli di nuvole che mi volteggiarono sopra la testa, facendomi ricrescere i capelli, continuò a girarmi attorno; quando si scompose in nuvolette ed entrò dentro di me, provai la felicità dei tuorli interi. Penetrammo la terra ,uscimmo da essa nella forma dei profumi , rincorrendoci nei più piccoli e insignificanti fiori della pianeta, e poi in quelli dei corpi in amore, che non erano i nostri ma ad essi appartenevamo nelle più alte sfere del piacere, per qualche secondo ci baciammo con tutti i baci dati nel mondo in quel momento, fummo le effusioni,i pori, il calore zampillante. Poi lei si nascose di nuovo dentro di me, e mi lasciò inebetito. Dovetti farmi tante spremute di arance per ritrovare la lucidità. Andai al negozio e feci sostituire il crea uragani con un più concreto estrattore di succhi. Il commesso sembrava avere capito.

L’ombrello

Le parole, le persone che camminano sconosciute
sono come la pioggia,
e sono pioggia le cose immobili,
tanto vicine quanto inaccessibili
è pioggia la frutta dei mercati,
che scompare nelle mattine
e prima ancora dai rami delle madri.
Sono pioggia i semi, i fiori, il profumo
i miei sentimenti che rimbalzano nella stanza.
Il sentire senza parlare, le discussioni ai cellulari
cadono tutte in un oblio di vapore
come le preghiere,
le maledizioni,
il fumo di tutte le sigarette del mondo
piove via senza differenza di peso,
le fatiche nelle fabbriche ,dei macchinari
le leggerezze delle risate giovanili.
Le fucilate di ogni guerra,
le notizie, il riso sulle spose novizie
tutti i baci del mondo sono pioggia,
è pioggia anche la pioggia,
mentre cade assieme ai giorni.
Ma c’è qualcosa che risale,
di idroreppelente,
un calore che si esplica
quando creiamo nella nostra solitudine
una pelle che non è del mondo
e ci facciamo da ombrello;
quando ci avviciniamo così tanto
da non chiamarci più per nome.

Licia la sciamana

Licia fa un lavoro strano, la sciamana, ha vissuto nella Taiga dell’ Alaska per un anno con un vecchio sciamano professionista di nome Barrok che a vederlo in foto sembra sempre ubriaco. Prima di conoscerla per me “sciamano” era solo un tipo di differenziale per biciclette. Dice che il mio animale Totem è il poni, il suo è l’aquila. La prima volta che sono andato a casa sua, ha voluto leggermi l’aura, mi ha fatto sedere su un tappetino fatto di foglie di lauro, e poi ha preso un grande tamburo e ha cominciato a percuoterlo per entrare in risonanza con il mio corpo. –Dentro di te hai un nido di corvi, tra il pancreas e duodeno…- Mi ha fatto uno spiegone, ma il succo del discorso era che doveva scacciare quei corvacci da dentro di me, allora si è messa il suo vestito di piume sciamanico e ha cominciato a volteggiarmi attorno con le braccia aperte e poi si è tuffata sopra di me facendo dei versi da aquilotta, mi ha sbattuto per terra, e mi ha afferrato la pancia con le mani, sbattendomi le sue ali piumate sulla faccia.– Li ho fatti uscire dal tuo corpo, ora ti senti meglio, vero?-
Sono passate alcune settimane da allora, il suo lavoro su di me sta dando dei frutti, quei corvi se ne vanno per un qualche giorno e poi ritornano, anche stasera ha fatto il rito, ora lei è seduta sul mio bacino, mi sento come una pecora dopo la tosatura, la sua pelle invece è bollente, i capezzoli premono sotto la maglietta bianca. Mi guarda con suoi occhi verdi limpidi come le foglie degli aceri dopo la pioggia.
-Bene allora mi faccio una doccia e dopo mangiamo, ti piacciono i noodle?- Ha buttato quegli spaghetti nella pentola a pressione, si è svestita lasciando le ali sul tavolo. Mentre è sotto la doccia accarezzo quelle piume.- Comunque non abbiamo finito, c’è un grosso lavoro di semantica sulle emozioni da fare su di noi!- Nel frattempo indosso quella protesi di ali, e senza toglierle preparo il tavolo. –Sono il tuo poni volante vero?-
-Certo che lo sei!- Urla. Mi sta insegnando a volare come un piccolo Icaro, anche io ho del lavoro da fare su di lei, quando finiamo di mangiare mi sale in groppa sulla schiena, e cammino a carponi attorno al tavolo, poi mi dirigo verso la finestra , mi abbraccia, mi stringe i calcagni sui fianchi e prendiamo il volo verso la luna, quando arriviamo sulla luna ci distendiamo, lei finge di essere “la zingara addormentata “ di Henri Rosseau, ed io faccio finta di trasformarmi in leone, le bacio il collo, le morsico una spalla, lei fa finta di dormire ma sorride, anche quando prendo le sue gambe e appoggio le sue caviglie sulle mie spalle. Non siamo davvero sulla luna, abitiamo al piano terra di una casa indipendente e siamo sopra un tappeto argentato, facciamo l’amore così, facendo finta di dormire a turno, perché non dobbiamo risvegliare i corvi prima che siano andati via del tutto da dentro di noi, mi guardo attorno, la vera luna rischiara la sua pelle con delicatezza, forse la notte stessa è un grande corvo, ma è ancora primavera e prima delle case c’è un grande prato di grilli, un sogno da cui non vogliamo svegliarci.